Cacciare il diavolo dai sobborghi sud di Parigi: un lavoro “certosino”…

Parigi era, nel Medio Evo, molto meno estesa di oggi. A sud, lungo la strada di Orléans, l’agglomerato si fermava approssimativamente là dove c’è oggi l’incrocio del boulevard Saint Michel e della rue Soufflot. Ad un centinaio di metri più a sud delle mura cittadine, in piena campagna, il Re Roberto il Pio (regnò dal 996 al 1031) si era fatto costruire un piccolo castello chiamato «Vauvert» (= val verde).

Come arrivò il diavolo a Parigi?

Nonostante il suo soprannome, il re Roberto aveva avuto grane colla Chiesa, e rimase scomunicato per un paio di anni. Inoltre, non era stato molto popolare e, subito dopo la sua morte, si diffuse tra il popolo la leggenda che non era stato altri che il diavolo a rubare la sua anima, e a prendere possesso del suo castello. Tanto che, dopo la sua morte, nessuno volle abitarvi.

Il castello Vauvert si diroccò rapidamente. Durante gli anni, i decenni, che seguirono la morte del re si diffusero le leggende più incredibili sul castello disabitato, divenuto ormai, secondo le dicerie del popolo parigino, luogo di ritrovo di tutti i diavoli, di ogni tipo di esseri mostruosi e malefici… La località fu nominata «Diable Vauvert» per via della sua pessima reputazione, questa zona “maledetta” fu evitata da tutti anche di giorno; figuriamoci di notte…

Ancora oggi, in francese, «mandare a quel paese» si dice: «envoyer au diable vauvert». «Vivre au diable vauvert» significa «vivere fuori mano».

Durò così per quasi due secoli, fino al regno di Re Luigi IX (canonizzato “San Luigi”, nel 1297). Nel 1257, ritenne di non poter più tollerare che il diavolo avesse il suo feudo proprio davanti alle mura della sua capitale. E per cacciarlo decise di far appello ai religiosi certosini.

Non si può sapere in che misura re Luigi prese quella decisione per porre fine a superstizioni, ad una leggenda urbana che era il primo a giudicare ridicola; o se lo fece perché lui stesso era, come molti medievali, anche colti, convinto dell’esistenza fisica del diavolo e volle davvero scacciare Lucifero dai sobborghi parigini.

Dopo tutto, il «Roi Très Chrétien» si riteneva responsabile delle anime dei suoi sudditi…

Come arrivarono i certosini a Parigi?

Comunque fosse, il re scrisse, nell’agosto del 1258, a don Bernard de la Tour, il priore generale dei Certosini, per pregarlo di mandare religiosi a Parigi.

Quasi due secoli prima, nel 1084, S. Bruno e sei compagni si erano istallati nel massiccio impervio della Chartreuse (italianizzato in Certosa), un po’ a nord di Grenoble.

Non è certo che Bruno abbia avuto l’intenzione iniziale di fondare un nuovo ordine. Morì nel 1101 dopo aver fondato un altro monastero, Serra San Bruno, nelle montagne di Calabria. Ma la regola (nominata gli Statuti), la stese Guigo, uno dei suoi successori, solo nel 1127. E la fondazione amministrativa dell’ordine, riguardo al diritto canonico, fu realizzata solo nel 1140, molto dopo la morte di Bruno (questi non fu, d’altronde canonizzato prima del 1514).

L’originalità della spiritualità certosina era di abbinare vita eremitica e vita comune.

A dire il vero, quest’ideale non era del tutto originale. Più di un secolo prima di San Bruno, Romualdo di Ravenna aveva fondato a Camaldoli (AR) un monastero in cui si coniugava la vita religiosa comunitaria con quella solitaria. Ma l’impatto fu minore; e, giacché i camaldolesi seguono la regola di San Benedetto, non si trattava in senso stretto, di un nuovo ordine.
Si trattava, si tratta ancora oggidì, di una vita molto impegnativa.
«Cartusia nunquam reformata quia nunquam deformata»
Mai riformata perché mai deformata. All’infuori di alcuni dettagli tecnici, il certosino del 2018 conduce, quasi, la stessa vita del suo confratello del Duecento.

I CERTOSINI, IERI COME OGGI

La contemplazione è lo scopo esclusivo della vita certosina. E il cammino per raggiungerlo è doppio: solitudine e stretta separazione dal mondo. A differenza degli eremiti veri e propri, i certosini non vivono nella solitudine assoluta.

Ma solo gli uffici religiosi e il pranzo si effettuano in comunità. Solamente tre ore alla settimana, durante la passeggiata domenicale, detta “spaziamento”, si può parlare coi confratelli (o consorelle). La clausura, la separazione dal mondo, la fuga mundi è assoluta e permanente.

Salvo rarissime eccezioni, il certosino non esce mai dal suo monastero. E le possibilità di ricevere visite dall’esterno sono ridottissime. Contrariamente ad altri ordini, tipo i benedettini, ogni attività pastorale è rigorosamente vietata ai certosini dagli Statuti. Anzi: è affatto inconciliabile cogli Statuti, con la loro vita e la loro spiritualità.

Dal deserto alla città

Logicamente, i certosini ricercavano l’isolamento, il “deserto” (cioè, campagne o montagne spopolate) per edificarvi i loro monasteri (ce n’erano già una cinquantina, in tutta Europa, nel 1257), il più lontano possibile da ogni luogo abitato.
«Per scampare ai flutti tempestosi del mondo, a tutti i loro pericoli e ai loro naufragi… abbiamo gettato l’ancora nel porto più nascosto»

Insediare una certosa nelle prossimità immediate di una città, anche se non proprio dentro, poteva dunque apparire un paradosso, anzi, un’aberrazione. Non sappiamo come il Priore Generale dell’ordine abbia reagito a tale domanda. Si può pensare che il re Luigi IX abbia avuto da fare pressione per convincerlo a mandare certosini a Parigi.

Comunque sia, la fondazione della Certosa di Parigi era un’assoluta novità, che destò scalpore in tutta Europa.

Come per assuefarsi alla sfida di vivere accanto a 100 000 persone come se fossero nel deserto, i certosini si insediarono prima a Gentilly, ben 3 chilometri più a sud e, solo dopo settimane d’insistenza, a Vauvert, il 21 novembre 1258, cioè proprio accanto a Parigi.

Le cronache ci raccontano che, per tre giorni, i 12 religiosi rimasero in preghiere, «tra tuono, lampi e un forte puzzo di zolfo». I diavoli erano, ovviamente, riluttanti, ad abbandonare il loro ritrovo. Ma, «costatando che non avevano nessun poter sui religiosi, si videro costretti a lasciare il posto».
Per allietarli, il re aveva concesso ai certosini un grandissimo terreno che corrispondeva a, anzi, esulava dell’attuale Jardin du Luxembourg. Gli stabili del monastero furono edificati nell’angolo sud-ovest, tra le attuali rue d’Assas e avenue de l’Observatoire.
Vue cavalière de la chartreuse de Paris, d'après une gravure du Cabinet des estampes de la Bibliothèque nationale.
Come si vede sull’incisione, una certosa ha una pianta ben particolare, nettamente distinta dai conventi degli altri ordini. I certosini devono trascorrere tre quarti del loro tempo nella solitudine della cella, cella che è per il certosino, come dicono felicemente gli Statuti, ciò che l’acqua è per il pesce e l’ovile per le pecore (cf. 1.4.2). Non si tratta di una semplice stanza, come negli altri conventi, bensì di una vera e propria casetta, con un giardino privato. Queste casette sono raggruppate intorno ad un chiostro rettangolare. La chiesa forma un lato del chiostro. Alla certosa parigina venivano inoltre concessi “mansi”, cioè, poderi situati in campagna, intorno a Parigi, il cui utile consentiva ai certosini di sbarcare il lunario.

CERTOSE IN CITTÀ: L’ESPERIMENTO DI PARIGI

Un po’ dappertutto nell’Europa cattolica, l’esperimento di Parigi (cioè, edificare una certosa, non più nel deserto bensì vicino ad una megalopoli) fu osservato con interesse e, davanti al successo, anche imitata da parecchi altri sovrani e principi, particolarmente in Italia. Per godere del sostegno spirituale delle loro preghiere, aiutando la salvezza propria, e del popolo cittadino? O, più cinicamente, approfittare del prestigio certosino per rafforzare il proprio potere? 

L’uno non toglie necessariamente l’altro. Le mentalità medievali erano pregne di una fede profonda, sovente superstiziosa che assolutamente niente poteva scuotere, ma nello stesso tempo, di un buon senso “boccaccesco”, cinico, scurrile ed egoista.

Già nel 1297, Luchino di Negro fece edificare una certosa nella Val Polcevera (500 m a monte dell’odierno Ponte Morandi…), proprio alle porte di Genova. Seguirono Milano (l’arcivescovo Visconti fece venire certosini a Garegnano, nel 1349), Avignone (1356), Digione (nel 1384) e molte altre…

Dopo i primi del Cinquecento fu perfino oltrepassata una nuova tappa. Le certose fondate nel ‘500 e ‘600 furono, in gran maggioranza, non più vicine alle città bensì nelle città stesse (Tolosa, Bruxelles, Colonia, Marsiglia ecc). Ma nessuna di queste “certose urbane” sarebbe sopravvissuta ai turbamenti della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche. Oggi le 24 certose (19 per uomini, 5 per donne) esistenti si ergono tutte nella solitudine più assoluta possibile. In pieno accordo cogli Statuti che parlano della necessità di «mettersi al riparo dai rumori del mondo».

Don Jean de Josserand fu il primo dei priori della Certosa di Parigi. Ma bisognò aspettare il 1325 perché la costruzione fosse completata. Costruire costava molto e in quell’epoca, come nella nostra, sebbene i dirigenti politici non fossero avari di promesse, alla fine le finanze pubbliche non erano sempre all’altezza…
I certosini dovettero ricorrere ad un vero “crowdfunding”, facendo appello a ricchi donatori. Perfino il Papa concesse indulgenze per chi aiutava i certosini a costruire il loro convento. E, per i più generosi, c’era il privilegio di venire seppelliti “ad sanctos”, cioè, nella certosa stessa.
Alla fine i certosini si installarono nei pressi di Parigi e vi rimasero per circa 5 secoli, ma se oggi visitiamo il Jardin du Luxembourg non troviamo traccia di nessuna Certosa.  Che fine ha fatto? Scoprite il seguito della storia leggendo le sorti della certosa di Parigi.

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Bernard Hautecloque
Bernard Hautecloque

Tengo qui a ringraziare la mia amica Silvia per aver accettato di pubblicare alcuni articoli miei, nel suo interessantissimo blog lamiaparis.com. Rivolgendomi ad un pubblico italiano, ho steso i testi direttamente in italiano. Ma non si tratta ovviamente della mia lingua materna, e sono, nuovamente, grato a Silvia di avere corretto i miei strafalcioni più grossi. Va però ricordato che eventuali errori rimangono della mia sola responsabilità.

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